La città deve il suo nome alla sorgente termale molto apprezzata dalla regina D. Leonor, moglie di D. João II, re del Portogallo secolo XV, che ebbe modo di provare le proprietà curative di queste acque quando le rimarginarono una ferita che non si rimarginava da molto tempo. La regina ordinò qui la costruzione di un ospedale, attorno al quale si formò il villaggio che divenne noto come “Caldas da Rainha”.
Ma quali sono le cose assolutamente da non perdere? Ecco una TOP 10.
1. Scatta una foto accanto alla statua di Bordalo Pinheiro (caricaturista, artista, ceramista e molto altro) e al suo personaggio più noto Zè Povinho
2. Visita il mercato della frutta a Praça da República e acquista alcuni prodotti tipici
3. Passeggia nel Parco D Carlos
4. Acquista le ceramiche Bordalo Pinheiro direttamente in fabbrica (e nell’outlet al primo piano)
5. Fermati a mangiare la tradizionale “Cavaca”
6. Visita il Museo Malhoa e rimani senza parole davanti alla Passione di Cristo in terracotta di Bordalo Pinheiro
7. Visita il Museo dell’Ospedale e scopri la storia della città e del primo centro termale e prenota una visita alla Piscina da Rainha dove nasce ancora quest’acqua miracolosa
8. Scopri la tradizione delle forme falliche (Re D Luis chiese un oggetto divertente per divertire i suoi amici. João Pereira, usando la tecnica della ceramica dell’epoca, inventò un fallo monocromatico)
9. Visita al Museo della Ceramica, all’interno di un’antica casa
10. Acquista i prodotti locali presso l’antica drogheria Pena, aperta dal 1909
Dove acquistare le cavacas:
Pasticceria Baia o rei das cavacas Rua da Liberdade 33
Pasticceria Machado Rua de Camões 41
Forno do Beco, Beco do Forno
Per una pausa pranzo
O Canas R Dr. Julio Lopes 15
Tacho Tv do parque 15
Casa Antero, Beco do Forno
Per la nostra prossima storia, ho accompagnato Alex in una zona non lontana da Sintra, a Mem Martins, dove si trova il club columbofilo Algueirão e Mem Martins.
Ed é qui che incontriamo Antonio, trascinato in questa passione da un amico. Attraverso le sue storie, ci apre un mondo assolutamente sconosciuto, quello dei piccioni viaggiatori, che decidiamo quindi di condividere con voi.
Ma prima di entrare nello specifico, cerchiamo di capire di più di questa tradizione che é molto più antica di quello che possiamo immaginare.
Da Ramses III a Re Salomone, passando per Gengis Kahn o le forze armate del XX secolo, i piccioni viaggiatori hanno influenzato il corso di vari conflitti armati nel corso della storia e negli ultimi secoli sono diventati “atleti altamente competitivi”, in grado di volare anche mille chilometri in un giorno.
La corsa dei piccioni è l’arte di allevare piccioni viaggiatori per la competizione ed è diventata uno sport in Belgio nel 1820. Praticato all’inizio soprattutto in Belgio, Olanda e Germania, si é poi diffuso nella penisola iberica negli anni 20/30 e, due anni fa, il Portogallo ha vinto una medaglia d’oro alla 36a Olimpiade dei piccioni.
I piccioni viaggiatori volano chilometri in un solo giorno con l’istinto di tornare a casa e hanno un “GPS biologico” allineato con il campo elettromagnetico del pianeta, che dà loro un senso di orientamento unico. E creano un rapporto unico con chi fornisce loro cibo e riparo.
L’attuale piccione viaggiatore è il risultato di incroci di alcune razze belghe e inglesi, effettuati nella seconda metà del XIX secolo. Questo modello di piccione è stato continuamente selezionato per accertare due caratteristiche principali: una capacità di orientamento e un morfotipo atletico.
Il compito degli allevatori di piccioni é quello di migliorare le capacità fisiche e di orientamento per partecipare ai campionati. Sviluppano velocità massime comprese tra 87 km/h e 102 km/h su distanze che possono superare i 1.200 chilometri.
In queste competizioni, i piccioni viaggiatori non trasportano messaggi da una destinazione all’altra ma vengono trasportati dal loro loft a un certo punto di partenza, da dove devono tornare a casa.
È uno sport che, con sorpresa di molti, è diventato il 3° più praticato a livello nazionale, è praticato in tutto il mondo, dalle Americhe all’emergente e ricco continente asiatico, ovvero Cina e Giappone, anche il Sud Africa ha la “più grande Corsa del mondo” la “Sun City Million Dolar Race Pigeon” dove l’ “amatore” (nome con cui si identificano i proprietari dei piccioni in competizione) vince un premio di 1 milione di dollari, più parte del valore per il quale il piccione vincitore sarà venduto all’asta.
Grazie alla spiegazione di Antonio, presidente di questo club, scopriamo che esistono praticamente club colombofili in tutti i distretti che sono poi organizzati per regione ed esiste poi un’associazione nazionale.
Ogni “allenatore” ha circa 100 piccioni o più. Si effettua sempre la selezione dei migliori per iscriverli alle gare.
Il club Mem Martins é abbastanza antico, risale al 1976, ma ci spiega Antonio che ce ne sono di più antichi. Quello di Lisbona é stato tra i primi ad iniziare, ma oggi non é quello più forte a livello nazionale.
Ogni club ha più squadre e Antonio ci porta a conoscere la sua, chiamata Avelinos, Barroso & Camolas dove Camolas è Antonio, che in questa squadra conta con Josè Avelino, Marco Barroso e João Avelino.
Attraverso questa squadra abbiamo potuto osservare più da vicino come funziona il lavoro di addestramento e preparazione dei piccioni. Questi sono allenati e accuditi in piccionaie e molto spesso gli appassionati di questo sport sono obbligati a desistere per non avere abbastanza spazio dove collocare la piccionaia.
Quando, per esempio, si vive in un condominio, non sempre gli altri inquilini lo permettono, e anche vivendo in una casa, a volte i vicini non sono d’accordo. Senza parlare del fatto che spesso l’evoluzione della città e l’esigenza di costruire nuove case ha portato alla distruzione di piccionaie.
La municipalità in alcuni casi ha anche cercato di aiutare proponendo la costruzione di veri e propri villaggi colombofili.
Antonio ci spiega che dedicarsi all’allevamento e allenamento dei piccioni é molto complicato, oltre ad essere estremamente caro perché i prodotti necessari, l’alimentazione e le cure mediche possono essere molto costose. Ed é una passione che richiede molte ore di lavoro.
Innanzitutto ci spiegano che bisogna avere i piccioni per la riproduzione e i piccioni per le gare (i figli). Le uova vengono fecondate per 18 giorni prima della nascita dei piccoli piccioni. Piano piano i nuovi arrivati devono abituarsi all’ambiente, e alla strada. Si comincia con piccoli voli spontanei nella colombaia, e poi si inizia con l’allenamento vero e proprio.
Il colombofilo deve realizzare un vero e proprio piano di allenamento. I piccioni devono allenarsi due volte al giorno. Quando sono pronti si comincia con l’abituarli ad allontanarsi, lasciarli liberi e farli tornare a casa da soli. Si comincia con 120 km e poi si aumenta la distanza.
É richiesto un accompagnamento quotidiano e molte cure.
Oggigiorno l’allenatore di qualsiasi sport non è solo un coach, deve essere un leader, deve essere uno psicologo, deve essere un preparatore atletico, un analista, deve essere tutto ciò che gira intorno all’arte di comandare una squadra, e cosi dietro un “Colombofilo” c’è un allevatore, un “nutrizionista” – il cibo durante la settimana non è sempre lo stesso, questi animali effettuano prove che vanno da 200-300 km (gare di velocità), passando per 300-500 km (media distanza) e da 500 a 800 km ( profondità), essendo che per quelle più vicine, il piccione deve essere più leggero rispetto a quelle più lontane, dove le sue riserve energetiche devono essere maggiori, un “veterinario” – Tutti i piccioni per poter partecipare alle gare devono essere vaccinati all’inizio della stagione, dopodiché è indispensabile effettuare cure per le malattie più comuni, come coccidiosi, tricomoniasi, salmonellosi e vie respiratorie. È importante prestare sempre attenzione durante la stagione, poiché un piccione non vola solo con le ali, se le sue vie nasali e/o i suoi polmoni sono ostruiti gli costa correre. É anche un preparatore fisico – esperto in gran parte della fisiologia dello sforzo per il recupero dell’atleta dopo la competizione, le vitamine da somministrare, gli amminoacidi o anche gli elettroliti per il recupero; tutto questo fa parte della competizione e della vita di un colombofilo.
Trattare i piccioni come atleti agonisti è un processo lungo e molto particolare che richiede pazienza e metodo di lavoro.
In Portogallo, le corse dei piccioni si svolgono tra febbraio e giugno di ogni anno e nei mesi rimanenti ci sono altre gare di piccioni, vale a dire i derby. Il numero di piccioni è stimato a 4,5 milioni.
Il club organizza la consegna. Ogni piccione ha un anello alla zampa. Prima era un anello di gomma con un numero che l’allenatore registrava e quando il piccione rientrava, annotava il numero e ritirava l’anello. Ma questo poteva creare imbrogli. Oggi il sistema é molto più complesso. Ogni allenatore e ogni club di riferimento hanno una macchina che registra i singoli piccioni con il numero di riferimento di un anello di latta alla zampa che corrisponde a una vera e propria scheda di identità. Il trasporto avviene in camion TIR, dotati delle cure necessarie per il benessere degli uccelli, in termini di abbeveraggio, controllo della temperatura interna e cibo, essendo autentici atleti dell’alta competizione.
Arrivati al punto di partenza i piccioni sono liberati e iniziano il volo verso casa. Raggiungono una velocità di 700/800 km l’ora.
Ci sono varie teorie, ma non c’é ancora una spiegazione concreta, su come riescano ad orientarsi e partire, sapendo che arrivano al punto di partenza in un camion completamente chiuso. Ma fatto sta che ritrovano la strada di casa. E una volta tornati, ogni allenatore regista il CIP del documento di ogni piccione nella macchina e registra cosi il tempo di volo e la velocità.
E se a livello di preparazione fisica dei colombi, gli allevatori devono prestare attenzione all’alimentazione e allo stato di salute degli animali, in relazione alle strategie per farli tornare più velocemente, il discorso è diverso, in quanto il rapporto tra addestratore e animale può essere decisivo. Visto che in queste competizioni non basta lasciare i piccioni viaggiatori in un determinato luogo e farli tornare a casa. Devono tornare a casa il più velocemente possibile.
Ci sono diverse strategie.
Per esempio durante la settimana i maschi vengono separati dalle femmine e preparati per la prova e quando tornano sanno automaticamente che quando arrivano in soffitta le femmine sono lì ad aspettarli e viceversa. O si può preparare una specie di zuppa di latte e miele.
Ma a quanto capiamo ognuno ha il suo segreto e non vuole rivelarlo.
Stiamo quasi per lasciare i nostri nuovi amici quando arriva Carlos Barbosa, che ormai di piccioni non ne ha più ma continua a venire al club. Ha cominciato a dedicarsi ai piccioni per passione. Originario di Ponte de Lima, allevava i piccioni da bambino e creava con essi un tale legame che, quando i piccioni venivano venduti al mercato, se l’acquirente non faceva attenzione a tenerli in casa nei giorni a seguire, i piccioni scappavano e tornavano da lui. Una volta suo padre gli aveva detto che gli stessi piccioni erano rientrati tre volte!
Ci lascia con una storia davvero incredibile e divertente. Racconta di aver accolto e allenato un piccione che nessuno voleva, visto che rifiutava di accoppiarsi e passava le sue giornate vicino ai piccioni maschi come lui. Inscritto ad una gara, riuscì a stupire tutti.
Carlos era uscito di casa, calcolando che i piccioni avrebbero cominciato a tornare di li a un paio d’ore. Poco dopo, una chiamata di sua moglie lo aveva avvisato che un piccione era già nella piccionaia. Visto che mancava ancora molto tempo, aveva pensato ad un piccione perduto che aveva trovato rifugio nella sua piccionaia. Immaginatevi la sua sorpresa quando, tornato a casa, aveva scoperto che quel campione non solo era un suo piccione, ma era proprio quel piccione che nessuno aveva voluto.
Insomma, andiamo via con la consapevolezza di aver scoperto un mondo quasi sconosciuto, fatto di antiche tradizioni, pazienza, molto lavoro, affetto, cure e dove non c’é spazio per la discriminazione.
La nostra prossima storia ci porta in un mondo davvero speciale, quello in miniatura del negozio di Carlos.
Originario di Viana do Castelo, nella bellissima regione del Minho, Carlos Guimaraes apre le porte del suo negozio, nella zona di Casais de Mem Martins, nella periferia di Sintra.
Gli amanti del modellismo, ma non solo, resteranno di sicuro a bocca aperta nel vedere il mondo che si nasconde in questo negozio.
La passione per il modellismo Carlos se la porta dentro da sempre, un mondo capace di far sognare grandi e piccini.
Il padre di Carlos aveva un negozio di giocattoli, ed importava da diversi paesi. All’epoca Carlos, sedicenne e già grande appassionato di modellismo e nuove tecnologie, comincia a cercare di convincerlo a introdurre nel suo negozio alcuni oggetti di modellismo.
Il loro primo negozio sarà a Lisbona, nella piazza di Rossio, dove i giocattoli per bambini del padre si uniscono ai modellini del figlio.
La passione per questo mondo accompagnerà sempre Carlos, che anche continuando a lavorare in altri campi, rende questo mondo “in miniatura” una sua oasi.
“Qui mi diverto, non lavoro” mi dice. E questo lo si percepisce subito, soprattutto quando, con l’aria impaziente di un bambino, ci conduce tra le sale del suo negozio alla scoperta di questo mondo che lo affascina tanto.
Una vera vita guidata tra modellini di ogni tipo, dai più semplici ai più sofisticati, da quelli alla portata di tutti a quelli per veri amatori disposti ad investire una vera fortuna.
Le prime sale che ci mostra sono quelle delle automobili e motociclette, con tanto di telecomando a distanza. Appena entriamo, Carlos ci mostra orgoglioso la scatola di un modellino da collezione di cui ne ha ricevuto tre esemplari. “É un’edizione limitata” ci spiega. E solo alcuni negozi di modellismo nel mondo ne hanno ricevuto alcuni esemplari.
Passiamo tra scaffali di ogni tipo di pezzo di ricambio, perfettamente identici a quelli veri solo decisamente più piccoli. E se ci sono i pezzi di ricambio, le batterie e gli attrezzi, ci sarà anche l’officina… Ed eccola li, la zona addetta alle riparazioni, con anche uno spazio coperto da un telo bianco, una lampada e la riproduzione di un mini set fotografico, dove Carlos fotografa i nuovi modelli acquisiti.
Ci sono auto di ogni epoca e modello, telecomandate, con sospensioni, che raggiungono velocità davvero notevoli. Carlos ci spiega che esistono delle competizioni e che alcuni appassionati riescono a creare un vero e proprio garage di immenso valore collezionando più modelli.
Ma lasciando questa sala per quella successiva, ci colpisce un aereo, perfetto in ogni dettaglio e Carlos ci spiega che si tratta di aerei che possono perfettamente volare e che partecipano all’evento di Aeromania.
Carlos ci spiega che a Sintra, vicino all’aeronautica, c’é una base aerea dove si possono far volare questi aerei in miniatura a partire dei 17 anni.
Carlos dice che la vicinanza della base aerea alla zona dell’aeronautica, non é casuale perché molti ragazzi, appassionati al volo, passano poi dall’esperienza del volo del loro aereo, a quella di un aereo vero. Carlos di ragazzi in quella base ne ha accompagnati tanti, insegnando loro come far volare queste “miniature perfette”. E a questo proposito ci racconta una storia davvero incredibile.
Durante un viaggio, quando era pronto per imbarcarsi per Dubai, un giovane uomo gli si era avvicinato salutandolo e chiamandolo per nome. Carlos si era stupito, non riconoscendolo. Allora questi si era presentato come “Franceschino”. Carlos a quel punto aveva detto di capire ancora meno visto che quello era un nome da bambino e quell’uomo gli aveva detto che si, era un nome da bambino, perché era cosi che Carlos lo chiamava quando Francesco, all’epoca ragazzino, aveva imparato a pilotare un aereo “in miniatura” insieme a lui, facendo cosi nascere in sé la passione che poi, da adulto, aveva continuato a coltivare.
Il nostro viaggio continua tra piccole vere opere d’arte come quelle custodite in una vetrina e che sono state presentate all’hobby kit del turismo di Lisbona che si tiene annualmente nel mese di ottobre.
Nella sala successiva ci sono barche, moderne ma anche veri e propri galeoni e Carlos ce ne mostra uno con cannoni in bronzo e vere tavole di legno, nello stesso numero della nave che riproduce. Si tratta di una nave dell’epoca dell’espansione marittima portoghese. 370 pezzi, 6 mesi di lavoro per costruirlo e un costo di 1800€. Queste opere, ci spiega Carlos, passano di generazione in generazione. Addirittura le vele sono state trattate con acqua e sale per ricreare un effetto di cristalli che brillano come stelle cosi come si faceva con le navi dell’epoca, ci racconta Carlos, per spingere l’equipaggio a continuare a viaggiare.
Naturalmente c’é anche spazio per il Diecast, quello che usualmente chiamiamo modellismo. In questo caso non c’é da costruire ma da collezionare e ogni oggetto ha un piccolo certificato con numero di serie da custodire gelosamente. Tra gli oggetti che le moto e le miniature di Valentino Rossi, che non può non mostrarci, e anche un oggetto davvero inusuale: la riproduzione dei camion che trasportano il vaccino.Argomento moderno, e oggetti che oggi, spiega Carlos, costano un prezzo abbastanza basso ma che col tempo e la richiesta possono aumentare di valore. In fondo é questa la legge di mercato che regola il valore di questi oggetti da collezione.
Il mondo “in miniatura” di Carlos é davvero senza fine: ci trasporta tra riproduzioni della guerra, con tanto di personaggi e oggetti di vita quotidiana, oltre a quelli di vita militare, per ricreare l’ambiente in ogni aspetto, quello che in gergo si chiama Diorama. Oggetti che vengono dall’Italia, dalla Germania, dagli USA, la Russia, l’Ucraina…e altri paesi. Un vero giro del mondo in qualche sala.
Ma quello che più mi colpisce in questa visita guidata che Carlos ci fa del suo negozio é la passione con cui ci racconta le cose e il fatto che per ogni singolo oggetto, per ogni riproduzione, Carlos riesce a raccontarci la storia di quell’evento o di quell’oggetto li ricreato. É come assistere ad una lezione di storia, passeggiando in questo mondo in miniatura.
E ce n’é per tutti i gusti, dalla battaglia di Waterloo al Reichstag.
Ovviamente non mancano tutti gli oggetti, miniature di alberi e fiori, e personaggi usati anche per i progetti di architettura, e piccole ricreazioni, con mini personaggi, di ogni momento della vita umana.
Carlos ci ha davvero portato in una realtà differente, fatta di storia ma anche di molta fantasia. E quello che davvero ci colpisce é la sua grande passione, il modo in cui gli occhi brillano mentre ci descrive il suo mondo, pezzo per pezzo.
Il suo appuntamento immancabile é ovviamente la fiera di Norimberga, dove ogni anno Carlos partecipa anche come addetto stampa per la sua rivista Hobby magazine. In 55 anni é mancato solo due volte; un appuntamento fisso per lui.
Ma Carlos ha ancora altri mondi e talenti nascosti da raccontare. Scopriamo che le foto della sua rivista sono sue. E che dietro la passione che ci ha raccontato si nasconde un passato da fotografo.
Anni addietro, a Parigi, aveva partecipato ad un corso di fotografia e cinema ed era finito a lavorare per Playboy. Ci racconta che per trovare nuove modelle, si recava in centro al Cafe de la Paix, dove le ragazze in cerca di lavoro come modelle, erano attente alla presenza di un fotografo. E allora Carlos doveva giusto appoggiare la sua macchina fotografica sul tavolo, e il gioco era fatto. Gli chiedevano la realizzazione di un book fotografico e cosi lui si trasformava in talent scout.
E Parigi non sarà la sua unica destinazione. Invitato per un evento fotografico in Brasile, ci ritorna una seconda volta per un lavoro di reportage di un anno e mezzo in Amazzonia.
E se la fotografia lo aveva portato laggiù, i reportage video, lo avevano visto protagonista di servizi realizzati anche per la RTP. Ce ne racconta uno legato alla guerra di oltremare che aveva finito per raccogliere immagini piuttosto scioccanti che alla fine non potevano essere trasmesse. E tempo dopo quelle stesse immagini, in un concorso in Spagna, gli erano valse un importante premio giornalistico.
Insomma. Carlos non finisce mai di stupirci, una vita che sarebbe degna di un libro. Ma anche davanti a tante avventure, lui preferisce ritornare nel suo piccolo mondo, un po’ come una versione maschile di Alice, che “rimpicciolisce” per ritornare nel suo paese delle meraviglie, che per Carlos sono un mondo fatto di trasporti, paesaggi e personaggi, da poter tenere spesso nel palmo di una mano.
Per raccontarvi la prossima storia, non basterebbero pagine e pagine, tante sono le cose, le esperienze, le sfaccettature della persona che sto per presentarvi. E anche con tante parole, probabilmente non riuscirei a trasmettere completamente l’energia straordinaria che emana.
Si tratta di Glow.
Appena ci sediamo a parlare, appassionata di orecchini come sono, non posso non notare quelli che indossa, assolutamente originali. E Glow mi spiega che li ha realizzati lei con una stampante 3D e con una speciale resina biodegradabile di mais e canna da zucchero. Mi ha già conquistato.
Mi dice che, quando comincerò a conoscere la sua storia, capirò anche come sia arrivata all’idea e a questa forma d’arte.
“L’infanzia”
Glow nasce in Brasile, a San Paolo. Il ricordo più bello della sua infanzia é la fattoria di sua nonna, vicino ad un fiume, immersa nella natura, senza nessun contatto con il mondo moderno. Un ricordo che probabilmente ha molto influenzato la sua attuale sensibilità verso l’ambiente.
All’età di 6 anni e fino agli 8 più o meno si ritrova a vivere da sola con la madre, poiché il padre lascia il Brasile per andare a lavorare in Portogallo e in altri paesi.
I suoi genitori avevano aperto delle attività commerciali, dei negozi in cui si vendono riviste, libri ma anche piccoli generi alimentari. Purtroppo i loro vari tentativi commerciali si erano sempre conclusi col fallimento.
Ma é proprio attraverso i libri e le illustrazioni dei fumetti che Glow ha il suo primo contatto con l’arte che la colpisce fin da subito.
La sua infanzia sarà in Brasile, ma intorno agli undici anni raggiunge suo padre, che nel frattempo ha un’altra famiglia, in Portogallo e va ad abitare con lui, la sua nuova moglie e la loro figlia in Ribatejo.
Non sarà una convivenza facile.
Glow mi dice una cosa che mi colpisce molto e nel corso della nostra intervista lo ripete spesso. Quello che più mi colpisce, in realtà, é che lo dica con un sorriso e con serenità.
Mi dice che i suoi genitori sono persone “emotivamente indipendenti” mentre lei era una persona “emotivamente dipendente”. Aveva sempre cercato l’approvazione dei suoi, la classica “pacca sulla spalla”davanti alle sue scelte, un “brava” detto al momento giusto, ma questo é spesso mancato.
“Scoprirsi”
Nel frattempo per Glow comincia anche un periodo di scoperta di se stessa. Comincia ad interrogarsi su di sé, la sua identità di genere. E comincia anche ad esprimere questo momento di scoperta attraverso un nuovo modo di essere e di presentarsi. Ma deve fare i conti con un ambiente molto conservatore, ancora di più in un piccolo villaggio, dove suo padre stesso, in quanto straniero, era stato oggetto di discriminazione.
La reazione di Glow sarà quella di smettere di esprimersi come vorrebbe, per cercare cosi di proteggersi.
Intorno ai suoi 15/16 anni una nuova sfida: decide di frequentare la facoltà di Marketing digitale e pubblicità. Comincia a conoscere l’ambiente del Marketing, dell’audiovisivo ed inizia a sperimentare nuove forme di espressione attraverso immagini e suoni che diventano per Glow una nuova valvola di sfogo ed una nuova maniera di raccontarsi.
In quel periodo comincia anche a scrivere poesie. Comincia a frequentare anche il circolo dei poeti di Santarem ed una delle sue poesie sarà anche scelta per essere inserita in un libro.
É un modo per Glow di esprimere i suoi sentimenti, quei sentimenti che impara troppo presto a nascondere. Si definisce una bambina sola. Ma non lo dice con amarezza o con rabbia verso i suoi genitori. Anzi. Spiega proprio che all’inizio c’era rabbia ma che oggi c’é comprensione per quello che é stato, che ha capito che ognuno di noi é fatto a modo suo e che i suoi genitori sono indipendenti e non riuscivano a dare a Glow l’approvazione di cui aveva sempre bisogno. Poi ad un certo punto ha smesso, ed ha capito che l’appoggio di cui aveva bisogno doveva cercarlo dentro di sé.
“L’indipendenza”
Un grande cambiamento arriva quando Glow ha sedici anni. In auto verso casa insieme a suo padre e la moglie, inizia una conversazione con i due che sfocia in discussione. A quel punto Glow chiede di fermare l’auto e scende, nel mezzo della strada. Vivevano a 40 km da Santarem e la strada verso casa era ancora abbastanza lunga. Suo padre pensa che la ritroverà a casa ma Glow a casa non ci tornerà più. Si rifugerà da un’amica dove abiterà per un po’.
È in questo periodo che Glow comincia ad “interrogarsi sul suo Modus Operandi”, soprattutto si interroga su come voleva davvero essere vista dagli altri, qual era l’immagine di sé che voleva veramente dare.
Alla fine della scuola superiore un altro cambiamento, stavolta dettato dal cuore. Innamorata di un ragazzo, lo segue a Peniche dove lavora in un’officina. “Non lo farei mai più”, mi dice. E non parla del lavorare in un’officina, perché il lavoro non la spaventa, ma di cambiare città per seguire qualcuno, perché le scelte vanno fatte per se stessi e non in funzione degli altri.
A quel punto Glow capisce di avere bisogno di un ambiente diverso, una città più grande in cui sentirsi libera di esprimersi. Ed é li che arriva a Lisbona, circa sette anni fa. Ed é qui a Lisbona che comincia con una serie di esperienze, alcune abbastanza decisive per le sue scelte future.
“Esprimersi”
All’inizio é il lavoro del bar di una discoteca dove ci sono spettacoli di Drag Queens. Una scoperta. Glow comincia ad essere affascinata da questo mondo e decide che potrebbe essere il modo di cui ha bisogno per esprimersi. Decide di cominciare a fare delle piccole performances per strada. Un vero cambiamento per Glow che all’epoca ancora usava abiti maschili. Ma per queste performances, indossa i panni di una drag queen, un vestito di scena, una parrucca. E ogni giorno percorre vestita cosi la strada tra casa e la zona in cui si esibisce.
E quel percorso Glow se lo ricorda bene, ma soprattutto, mi dice, si ricorda l’umiliazione che sentiva mentre lo percorreva, ogni giorno.
Questa fase della sua vita Glow la vede come un momento di riflessione. Il lavoro era estremamente stancante, dalle 22h alle 7/8h del mattino per guadagnare 25€, a notte e non a ora. Ma Glow mi dice che le ha offerto una nuova visione della vita. E le ha anche permesso di avere un primo contatto con la comunità LGBT (acronimo per Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender, n.d.r.).
Poi sarà la volta di un lavoro in un locale gay per pubblico rigorosamente maschile, dove ogni sera c’era un “tema speciale” da seguire. Glow ci tiene a spiegarmi come funziona perché la prima impressione può essere negativa. E mi confessa che lei stessa aveva molti pregiudizi in proposito. Ancora una volta lavora nel bar. Ma ogni sera assiste alla routine di questo locale che all’inizio un po’ la colpisce, ma poi la fa riflettere. Guardando il pubblico che li arriva, capisce quante persone ci siano che necessitano di un posto “segreto” per potersi esprimere liberamente, senza essere giudicate.
Glow comincia ad interrogarsi sulla sua personalità, comincia a porsi molte domande, impara ad avere orgoglio del suo corpo e si rende conto di non sapere più quanto della Drag Queen é davvero Glow e quanto é solo un personaggio. Cosi Glow abbandona i panni della Drag per fare chiarezza.
E parte per la Spagna, dove lavora nella reception di un hotel aperto in un antico convento.
Nel frattempo comincia anche a registrare dei postdcasts su temi del quotidiano che sono spesso tabu.
E soprattutto in questo periodo rincontra suo padre.
Per Glow é una svolta importante. Mi spiega che per tutti questi anni per lei era come se non riuscisse ad andare avanti, proprio perché questa parte della sua vita e la relazione con suo padre erano rimaste sospese. Rivederlo, parlarci, per Glow é stato un modo di chiudere un ciclo. Non é più arrabbiata, li ha accettati. I suoi semplicemente non riescono a dimostrale il loro affetto come lei vorrebbe. Glow ricorda per esempio quando, scelta dal ciclo di poeti di Santarem, suo padre non entrò in sala per supportarla, ma sapeva che era felice per lei. La madre la sente al telefono, ogni tanto, ma non la vede da tredici anni. Loro vogliono che lei stia bene, e lei lo sa. E va bene cosi.
“L’arte”
Glow é nel pieno della sua espressione artistica: registra video in Instagram, comincia ad assumere uno stile femminile. Con l’arrivo della pandemia Glow comincia a sentirsi più isolata. Fino a scoprire uno spazio a Lisbona di incontri Voguing. (Nella New York degli anni ’20, la comunità LGBT ha trovato rifugio nelle chiamate Ballrooms (sale da ballo). Ben oltre una semplice festa, era ed è tuttora uno spazio accogliente, un luogo sicuro dove queste persone che vivevano quotidianamente ai margini della società potevano, almeno per una notte, sentirsi bene con se stesse. Il voguing ha le sue origini nelle ballrooms di New York degli anni ’20, essendo stato creato dalle comunità queer nere e latine di Harlem. É uno stile di danza ispirato alle pose che le modelle usavano nelle pagine di Vogue, e influenzato anche dagli antichi geroglifici egizi e dai movimenti ginnici, n.d.r) E in questi ambienti in Lisbona, Glow comincia a scoprire anche la danza, una nuova espressione
Ed é ecco la Glow che vediamo ora, una grande donna frutto di tutte queste esperienze vissute.
Oggi é molto dedicata anche a questioni ambientali ed é da questa nuova vertente che nasce la Glow Oficina in cui si dedica alla creazione di arte sostenibile.
Per Glow l’arte deve essere “senza rifiuti”, un’arte completamente sostenibile. Dice che per diminuire l’impatto sul pianeta dobbiamo essere noi i primi a cambiare. E Glow cerca di farlo attraverso le sue creazioni, usando abiti donati o di seconda mano, attraverso nuove abitudini alimentari. Ma l’arte di Glow ha molte sfaccettature.
Nella sua ultima casa ad Alfama, Glow comincia con locandine su vari temi appese al suo balcone. La sua idea é quella di fare della sua casa una galleria d’arte vivente. E mi mostra il lavoro ispirato all’opera di Linn da Quebrada (artista brasiliana n.d.r) e della sua prima performance dedicata al mito di Lillith (la prima donna, prima di Eva, nata come donna pari di Adamo e non creata dalla sua costola, n.d.r.). Attraverso un’esposizione itinerante nelle stanze della sua casa, tra dipinti, video e immagini e suoni, Glow racconta questa storia.
Ma manca ancora un tassello. Glow compra una stampante in 3D e comincia a realizzare oggetti con materiali riciclabili. E riprende a scrivere poesie. Oggi, mi dice, ha capito che nessuna delle sue forme di espressione, per poter restare libere, può essere fonte di rendimento.
E adesso?
“Il futuro”
Ha venduto tutto, ha comprato una telecamera con cui filmare la sua vita e mandato una candidatura per fare volontariato in Italia. In questo momento in cui leggete la sua storia, Glow é a Catania, dove si dedica al sostegno sociale di chi ha più bisogno.
Ha tanti progetti, ma ci penserà giorno per giorno, magari una performance che racchiuda tutte le sue arti.
Prima di lasciarci mi dice che aspettare che gli altri cambino non serve, siamo noi a cambiare ed é questo cambiamento che conta. Solo cosi abbiamo impatto nella società, molto di più che costruendoci un personaggio sulle reti sociali.
Oggi Glow cerca di vivere in modo più leggero, senza pretendere troppo, senza chiedere troppo a se stessa, restando propositiva e continuando a raccontare la sua verità.
Nel quartiere di Alfama, nella “costa do Castelo” o più giù, quasi nascosto nel piccolo passaggio scendendo le scale da largo das portas do sol, si è catturati dalla voce emozionante di Ruca e dal suo fado.
Originario di Leiria, Ruca Fernandes scopre il fado intorno ai 20 anni per puro caso. Durante un banchetto di nozze, assiste ad uno spettacolo di fado, ed é subito amore.
Da quel momento comincia ad ascoltare i dischi di fado di suo padre, ad imparare le parole ed inizia a cantare. Le prime volte che lo fa in pubblico sarà in delle serate di Karaoke, quando scopre che tra le musiche disponibili c’è anche il fado e comincia cosi a cantare.
Quindici anni fa scopre il fado vadio (fado di strada, quello che tradizionalmente si canta nelle taverne), e decide di tentare. Impara un fado, “a moda das tranças pretas” e si presenta una sera nella Tasca dos chicos e chiede di cantare. Qualche minuto per concordarsi sulla tonalità con i chitarristi ed ecco che la sua voce si espande per il locale.
Ruca comincia a cantare fado con più frequenza ed inizia ad avere contatti con altri fadisti ed é cosi che nel 2007 si esibisce nella “Grande noite de Lisboa”, uno speciale spettacolo dedicato al Fado. Partecipa anche a due concorsi canori, “Concurso de fado de Odemira” e da “Costa da Caparica” e li vince entrambi.
Ruca inizia anche a partecipare a delle visite guidate dedicate al fado, dove al racconto delle guide si unisce l’emozione della sua voce.
Ricordo la prima volta che l’ho sentito cantare: è stato in un ristorante di fado, dove Ruca cantava accompagnandosi alla chitarra come fa ancora oggi. Ricordo l’emozione di quella voce, e di come la sua bravura avesse colpito i turisti che accompagnavo quella sera. Quando poi l’ho reincontrato e conosciuto meglio, ho scoperto che dietro il suo essere artista si nasconde una persona estremamente timida.
E allora gli chiedo come fa, come riesce a dominare la sua timidezza e a cantare davanti a tante persone. E Ruca mi confessa che il Fado è quasi una terapia.
Nel momento in cui prende la sua chitarra e comincia a cantare, entra in un’altra dimensione, si trasporta su un piano diverso, dove non esiste timidezza, dove non ci sono le persone che lo guardano, dove esistono solo lui e la sua musica. E non è un caso, mi spiega, che i tipi di fado che più ama cantare siano quelli più malinconici e tristi. In fondo in quel modo riesce ad esprimere quello che sente, incanalando in quella musica la sua anima. Perché cantare fado è esporsi all’emozione, propria e di chi ti ascolta, senza filtri. In fondo nel fado ancora prima della tecnica è importante l’anima, e la capacità di trasmettere la propria emozione.
Quando spiego il fado a qualcuno che non lo ha mai ascoltato, dico sempre che capire le parole non è importante, e non lo è neppure il fatto che il cantante abbia una tecnica vocale perfetta. Quello che davvero importa è che chi sta cantando riesca a farlo senza barriere, senza filtri, perché chi lo ascolta possa sentire la sua anima.
Ruca è d’accordo che il fado è una musica universale, che tutti possono capire pur senza cogliere la parole e il suo significato, perché è emozione pura.
E personalmente conosco bene questa sensazione perché io stessa mi sono emozionata tante volte, spesso fino alle lacrime, ascoltando il fado, pur all’inizio senza parlare portoghese. E con Ruca mi è successo più di una volta. Perché quando canta, si sente che lo fa con il cuore. Per lui la musica è tutto.
Quando gli chiedo cosa provi quando riesce ad emozionare le persone cosi, mi dice che sente di aver fatto un buon lavoro, perché significa che la sua musica è arrivata al cuore delle persone, alla loro parte più intima.
Mentre parliamo, ogni tanto si interrompe, impugna la sua chitarra e comincia a cantare. Come se la sua anima fosse “posseduta”dal fado e non potesse fare a meno di cantarlo. La nostra conversazione è piacevolmente interrotta più volte da questi momenti, in cui per raccontarsi meglio, Ruca lo deve fare attraverso la musica.
E allora inizia suonare, chiude gli occhi, e la sua voce comincia a risuonare tra le strade di Alfama, intonando un fado, “Com que voz”, poema del grande poeta Luis Vaz de Camões, cantato dalla celebre Amalia Rodrigues.
E la gente si ferma, una persona dopo l’altra, affascinati da quella musica e sopratutto dalla voce di Ruca.
Sono pochi giorni che Ruca ha cominciato a cantare per strada. C’è meno lavoro nelle case di fado in questo periodo. Ma Ruca lo fa soprattutto per essere in contatto con le persone, in fondo il fado è anche quello, trasmettere emozione cantando tra la gente, in un’atmosfera assolutamente intima.
Ruca mi confessa che il suo sogno più grande sarebbe quello di essere invitato a cantare fado all’estero, essere ambasciatore di questa musica. E noi glielo auguriamo. In fondo tante cose sono cambiate dai suoi inizi: ora spesso possiamo ascoltare la sua voce su Radio Amalia (radio dedicata al fado, n.d.r.) e ha già pubblicato due dischi, nel 2008 e nel 2018.
Ma ci sono sempre nuove sfide che lo aspettano. Ruca mi dice che ogni giorno per lui è una sfida personale, con se stesso, per migliorarsi, per riuscire a raggiungere sempre più tecnica, cantare fado sempre più complicati, trasmettere sempre più emozione.
Ruca mi racconta che ai suoi inizi era andato in una casa di fado a chiedere delle informazioni su dove poterlo studiare e il portiere di quella casa gli aveva chiesto in cosa potesse aiutarlo. Ruca gli aveva detto di essere alla ricerca di una scuola in cui imparare il fado. E allora quel signore gli aveva detto che “il fado non si impara, fadista si nasce”.
Sicuramente, come Ruca dice, bisogna sapersi perfezionare e curare anche la propria tecnica, ma io sono d’accordo con quel signore “fadista si nasce”.
C’è un’emozione nel cantare il fado che o hai o non hai. E quella non la puoi imparare. E Ruca ce l’ha.
Basta vedere l’atmosfera che nel frattempo si è creata intorno a noi. Il sole é tramontato, sta diventando notte nei vicoli di Alfama.
Nel piccolo passaggio tra due strade dove ci siamo fermati a parlare con Ruca, si accende una fioca luca. Ruca sta cantando “Gente da minha terra”, uno dei miei fado preferiti. Sulle scale che scendono ad Alfama la gente comincia a fermarsi. Si è creata una piccola folla, ma tutto tace. Nessuno osa interrompere quella magia che Ruca è riuscito a creare. Come se in quel momento tutti trattenessero il fiato, colpiti da quell’emozione che la voce di Ruca trasmette. Continua a cantare, con gli occhi chiusi. Non sa quanta gente si è fermata, non li vede. In quel momento non c’è posto per niente e per nessuno: esiste solo lui e la sua voce, la sua musica, il suo fado.
È un giorno di pioggia oggi a Lisbona, di quelli autunnali, un po’ grigi. Ma la nostra giornata, quella mia e di Alex, sta per essere rallegrata da un felice incontro.
Christian, vecchia conoscenza di Alex, ci viene incontro con il suo vivace cane Chopin. E si, Chopin, come il celebre compositore. D’altra parte un amante della musica come lui non poteva scegliere nome migliore.
Christian, all’anagrafe Christian Lújan, è infatti un baritono dalla bellissima voce. Ma è anche un artista dalle mille sfaccettature. Pronti a scoprirle insieme?
Christian, colombiano di origine, a Lisbona ci arriva per caso.
È successo 15 anni fa, quando all’età di 21 anni segue la madre, che, dopo il divorzio, decide di venire a Lisbona. Il loro arrivo non sarà dei più semplici perché, come Christian ci racconta, arrivano senza visto e passeranno ben 6 giorni in aeroporto a Lisbona in attesa di sapere se poter entrare nel paese o meno.
Quattro mesi dopo Christian entra nel Conservatorio Nazionale dove inizia a studiare canto lirico. Inizia anche a frequentare la facoltà di Musicologia nella FSCH, ma senza completare il corso.
La musica era ormai la sua strada e Christian non smetterà mai di seguirla.
“Ma come è iniziata?”, gli chiedo. Ancora una volta per caso.
Christian è originario di Medellín, centro della Colombia, non esattamente un paese dove la cultura della musica lirica possa ritenersi particolarmente radicata. Cresce con due educazioni diverse: sua madre è avventista (chiesa cristiana avventista del settimo giorno, n.d.r.), ma Christian frequenta la scuola salesiana della sua città, è vegetariano in casa, mangia carne a scuola, a casa si rispetta il sabato come giorno di riposo, ma alle stesso tempo inizia a far parte del coro salesiano.
Nel frattempo comincia anche a suonare. Era uso introdurre i bambini alla musica con piccoli corsi e Christian scopre il contrabbasso che sarà il suo primo strumento.
E cosi comincia il suo legame con la musica: tra il suo contrabbasso e i salmi cantati con il coro durante la Messa. Fino a quando un giorno qualcuno lo sente cantare. Antonio, professore alla facoltà di medicina, ma appassionato di musica e direttore del coro. Sente qualcosa di diverso, di speciale nella voce di Christian e gli propone di cominciare a curare questo suo dono. E cosi comincia a studiare nell’Instituto di belle arti di Medellín e si apre al mondo dell’opera.
Quando sua madre decide di partire per Lisbona, per Christian è l’occasione di arrivare in Europa, nel continente in cui l’opera e la cultura del canto lirico è radicata da secoli.
Ed è cosi che è iniziata, ed è a Lisbona e nel suo conservatorio che si è dedicato a questo nuovo mondo.
Christian si ricorda ancora la sua prima opera e il suo primo ruolo, quello di Pinnellino, il calzolaio del Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, al San Carlo di Lisbona. Aveva 23 anni. Gli chiedo quanto fosse emozionato. Christian mi risponde: “Emozionato? No. Terrorizzato”. Questo il suo ricordo delle prime due rappresentazioni. Ma in fondo, mi dice, è sempre cosi. Le prime rappresentazioni sono quelle del tremore, dell’ansia, poi si entra in scena, una sera dopo l’altra, e un po’ alla volta si comincia a godersi lo spettacolo e l’emozione della musica e dell’opera.
Lisbona non sarà la sua unica meta. Si trasferirà in Belgio per tre anni e mezzo dove si perfezionerà al Flanders Opera Studio.
Ed é in Belgio che arriverà la grande svolta nella sua vita sentimentale. Tornerà ad incontrare una collega, Mariana, lisboeta, cantante lirica anche lei, la cui strada aveva già incrociato ma senza che la scintilla fosse scoccata. Due caratteri diversi all’epoca, lei vivace, lui in una fase che definisce “boemia”, non si erano incontrati. Ma il destino gli ha dato una nuova possibilità, in Belgio, dove sono finiti a condividere un appartamento e si sono innamorati. La loro storia d’amore dura da dieci anni ormai e pochi mesi fa é stata coronata dalla nascita della tenerissima Camila.
Tanti sono i ruoli che Christian ha interpretato, ma quando gli chiedo quali sono quelli in cui si é più immedesimato o che più ha amato, non ha dubbi: Scarpia (il “cattivo” dellla Tosca) o Marcello (il pittore della Bohème), e i ruoli tragici dell’opera romantica, soprattutto quella di Giacomo Puccini.
Oggi Christian vive di musica, ma non può non ricordare i tempi in cui si è dedicato a tanti lavori diversi e nel frattempo, passava da un’audizione all’altra. Sicuramente una situazione stancante all’inizio, ma che non ha mai fatto desistere Christian che oggi ha saputo far conoscere il suo nome e la sua voce speciale nel mondo della lirica e finalmente può vivere di quello che ha sempre sognato.
Ma il ventaglio delle sfumature artistiche di Christian non si ferma alla musica e al canto lirico, e mentre ci dice di aver iniziato a studiare per imparare le tecniche di massaggio cinese, ci parla anche di un progetto di fotografia. Ci tiene a dire che non é un professionista, ma le sue foto lasciano davvero senza parole. (Cercate su Instagram @quotidianoss, e giudicate voi stessi).
Il progetto é estremamente interessante: passare una mattina con un estraneo e fotografarlo nella sua quotidianità, al naturale, nudo. Non si tratta di modelli ma di persone comuni.
Christian é sempre stato appassionato di fotografia, già da ragazzo, e racconta di quando all’età di 15 anni gli rubarono la sua macchina fotografica con dentro ancora il rullino e delle fotografie tra cui due prime foto di nudo. Da allora questo progetto era rimasto sospeso, fino ad oggi. Christian ci racconta di aver dovuto lottare contro una serie di preconcetti e di aver avuto bisogno di tempo per confessare, addirittura alla sua stessa famiglia, che il nudo era il soggetto da lui scelto per le sue fotografie. Un progetto che adesso continua già da circa 5 anni e che ci regala immagini di un quotidiano al naturale, senza filtri, senza costruzioni.
Un mondo tutto da scoprire, insomma, quello di Christian.
Nel frattempo la pioggia ci ha dato un momento di tregua e Chopin non smette di saltellare sulle gambe di Christian: è ora della passeggiata.
E allora li accompagniamo e ne approfittiamo per fare ancora quattro chiacchiere, sulla vita, i tanti cambiamenti vissuti, i progetti del futuro e, sopratutto, sulla nuova meravigliosa avventura della sua recente paternità.
Ci siamo, è ora di lasciarli andare, ma prima io ho ancora una curiosità: “E il contrabbasso?”
È rimasto appeso alla parete di una fattoria in Colombia. Forse chissà, un giorno Christian lo andrà a recuperare, forse resterà li come un segno di dove tutto è cominciato.
Prima di salutarci, Christian ci dice che nel suo futuro ci sono ancora viaggi, ancora luoghi da scoprire e in cui mettersi alla prova. In fondo l’arte è una continua evoluzione. Ma nel frattempo possiamo godere ancora della sua voce nei teatri di Lisbona, un’esperienza da non mancare, quella di lasciarsi trasportare dalla magica atmosfera dell’opera e dalla voce melodiosa del nostro Christian.
Quando sono arrivata a Lisbona, uno dei primi posti che ho visitato, è stato un negozio storico proprio nella piazza di Rossio. Si tratta del Madeira Shop.
Ricordo che quello che più mi aveva colpito entrando in questo negozio, era stata un’anziana coppia che mi aveva accolto con estrema gentilezza. Si trattava dei proprietari di questo luogo che, da generazioni, è nella mani della famiglia Abreu.
E cosi per raccontarvi la nostra prossima storia abbiamo deciso di recarci proprio li.
Su un lato della piazza di Rossio, alla destra di Pedro IV, che dalla cima di una colonna domina la piazza, tra negozi moderni e marche internazionali, si erge il Madeira shop, aperto nel 1959.
E ad accoglierci questa volta è Ana, figlia di quella coppia che mi aveva accolto anni fa durante la mia prima visita.
Ana comincia a parlarci di come è nato questo luogo, ma soprattutto della sua famiglia perché, scopriremo presto, le due storie sono strettamente collegate.
Ana inizia a raccontare e scopriamo che tutto comincia con suo nonno, Antonio Abreu, originario dell’isola di Madeira che si trasferisce nel “continente” con cinque dei suoi sette figli (due nasceranno a Estoril). Ana ci racconta di non aver mai conosciuto suo nonno, perché nata quando i suoi genitori avevano già 41 e 39 anni, e il nonno all’epoca era già scomparso. Ma la memoria di quei tempi e di come tutto è cominciato, Ana l’ha ricevuta in eredità dai suoi genitori ed oggi ci aiuta a ricostruire la loro storia.
Quando la sua famiglia si trasferisce nel “continente”, arriva a Estoril. Probabilmente per rimanere vicino al mare. In fondo si sa, quando si cresce su un’isola, e circondati dal mare, è impossibile restarne troppo lontani.
Il grande cambiamento arriva nel 1916 con un personaggio cui si deve un importante cambiamento nel turismo portoghese: Fausto Figuereido, che, oltre a lanciare la costruzione del casino di Estoril, diede origine anche alla linea ferroviaria che, col tempo, collegherà Estoril a Lisbona. La conseguenza di questo importante cambiamento sarà un importante incremento turistico che porterà nuovi clienti internazionali al negozio aperto proprio in questa zona costiera.
La famiglia Abreu comincia ad aprire più negozi, a Estoril, Lisbona, a Sintra e finalmente ancora due a Lisbona, l’ultima delle quali sarà il Madeira Shop.
È proprio quest’ultimo che sarà gestito dai genitori di Ana. Un’attività commerciale ma soprattutto un’eredità di famiglia. A cominciare con il nonno, poi il padre di Ana e adesso con lei e suo marito João.
Ana ci racconta che la loro attività ha dovuto attraversare varie crisi, a cominciare da quella a seguire alla rivoluzione dei garofani del 1974 che pose fine alla dittatura, passando per la crisi della borsa negli Stati Uniti, la crisi economica del 2008 e, per finire, la pandemia dell’ultimo periodo. Tante le prove e i momenti di crisi da superare, ma ogni volta sono riusciti ad andare avanti, soprattutto per orgoglio, per non perdere questa tradizione così importante per la loro famiglia.
Ana ci dice chiaramente che la ragione principale per cui continuano con la tradizione del loro negozio non è il guadagno economico, ma soprattutto la volontà di non interrompere una tradizione di famiglia che dura da tanti anni.
Diversi i prodotti che possiamo trovare in negozio e da diverse regioni di Portogallo, ma soprattutto un prodotto d’eccellenza che è quello che dà anche il nome al negozio: i ricami di Madeira.
L’origine dei ricami (Bordado) di Madeira risale all’antichità e al bisogno di decorare gli spazi. L’arte del ricamo è stata per molto tempo un’attività cui si destinavano le donne delle classi più benestanti oltre alle religiose e il grande impulso arrivò negli anni 50 dell’800.
Addirittura questa tradizione artigiana partecipò alla Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations a Londra nel 1851, riscuotendo un enorme successo.
Si tratta di un ricamo su lino, che, per la sua delicatezza e tradizione, fu sempre un prodotto di lusso che si incontrava nelle case aristocratiche. E oggi è considerato il migliore ricamo del mondo.
La famiglia di Ana si dedicò sempre ai “bordados da Madeira”, prima nella vendita con grande successo, poi addirittura nella produzione a Madeira. Oggi non più visto che seguire la produzione a distanza stava diventando complicato.
Si tratta ancora oggi di prodotti costosi e di oggetti di grande pregio, che hanno come acquirenti soprattutto i turisti, che hanno sempre fatto parte dei loro clienti abituali, sin dai tempi del primo negozio di Estoril. Ma Ana dice che anche molte famiglie portoghesi comprano biancheria ricamata per arricchire il corredo di famiglia o, per esempio, una tovaglia da usare per le occasioni speciali. Si tratta di oggetti che vengono poi tramandati di madre in figlia e che spesso restano in famiglia per varie generazioni, finendo per diventare custodi di memorie e ricordi, momenti speciali da ricordare, feste in famiglia da non dimenticare.
E in un’epoca in cui si parla tanto di sostenibilità, prodotti artigianali di tale qualità ne sono sicuramene un importante sostegno.
E la memoria tramandata attraverso gli oggetti acquistati fa si che Ana e la sua famiglia finiscano in qualche modo per far parte anch’essi di questa memoria.
Ana ci mostra un quaderno dove clienti abituali, stranieri e portoghesi, clienti che sono tornati più volte in negozio, lasciano un ricordo, una storia, un ringraziamento per qualcosa che, acquistato nel Madeira Shop, è poi entrato a far parte della storia di famiglia. Ana ci racconta di aver ricevuto chiamate e messaggi in questo periodo di pandemia di clienti preoccupati per lei e per i suoi genitori, sincere manifestazioni di affetto.
Ana ha cominciato a lavorare con la sua famiglia nel 2003, ma è dal 2008 che si dedica al negozio di famiglia più attivamente e a con l’aiuto attivo di suo marito João.
I genitori di Ana, Joaquim e Maria Antonia, oggi hanno 86 e 84 anni, ma non è stata l’età a tenerli lontani dal lavoro, ma si la pandemia. Ma Ana ci dice che di tanto in tanto non resistono e tornano in negozio, e quando non possono, pretendono a fine giornata da Ana un resoconto completo di tutto quello che è successo durante la giornata di lavoro.
Fino al 2019, in negozio non mancava mai la loro presenza, mentre Ana e João gli davano sostegno in negozio e, allo stesso tempo, si occupavano di viaggiare per il paese alla ricerca di oggetti d’artigianato unici.
Un’occhiata al negozio ci fa capire subito che non si tratta di un negozio comune e neppure di oggetti usuali. Ana conosce la storia di ogni oggetto, ascoltarla è come un viaggio nella storia delle tradizioni portoghesi, sa indicarci ogni diversa scuola o artista dietro ogni singolo oggetto. Perché li ha scelti uno per uno, ha incontrato gli artigiani, li ha visti lavorare.
E gli oggetti più fragili, Ana e João li hanno trasportati personalmente.
Perché questo lavoro è anche un modo per custodire e tramandare la tradizione di famiglia e l’amore che i suoi genitori hanno sempre avuto per questo lavoro.
Ana ci guida tra gli oggetti di ceramica di Coimbra ispirati in opere del XV e del XVIII secolo, il classico Gallo di Barcelos in terracotta dipinto a mano, simbolo di fede e giustizia e fortuna, e oggi anche uno dei simboli del paese, i “Figurados” rappresentati da artisti più moderni e raffinati e altri più anziani che ancora tramandano un’arte antica di rappresentazioni sacre e di vita quotidiana del campo. Immancabile la tradizione romantica dei fazzoletti degli innamorati, che anticamente le donne ricamavano a mano per l’uomo amato e che l’uomo doveva usare la domenica a Messa per mostrare di ricambiare i sentimenti della donna in questione.
E non mancano i tradizionali azulejos, i mobili dipinti dell’Alentejo, e tanti altri oggetti, opere di artigianato straordinari.
Ai ricami di Madeira si uniscono quelli di Viana do Castelo, ugualmente belli ma meno costosi, per permettere di raggiungere anche altri clienti.
E non mancano neppure gli abiti tradizionali di Madeira e di Viana, che sono spesso acquistati da turisti ma anche da emigranti portoghesi per portare con sé un pezzetto del loro paese. Per i bambini sono anche acquistati come abiti per il carnevale, mentre famiglie del nord ancora li usano nelle feste tradizionali, come quella dedicata a Nostra Signora dei dolori (20 agosto n.d.r.) o per alcuni eventi speciali.
Insomma, un luogo dove su ogni mensola, c’è un mondo nuovo da scoprire.
Il negozio di Ana, riconosciuto dalla città di Lisbona come una “loja com historia”, negozio storico, in realtà però è poco protetto dalla città stessa.
I tempi cambiano, la città di Lisbona evolve, si modernizza, e con gli anni le marche internazionali hanno sempre più sostituito gli antichi piccoli negozi locali.
Ma in fondo sono proprio questi negozi che contribuiscono a fare di Lisbona una città speciale e diversa dalle altre.
Insieme all’incremento turistico che, ci dice Ana, è ovviamente benvenuto, sarebbe auspicabile riuscire a proteggere in qualche modo questi negozi antichi della città per fare in modo che non spariscano.
In fondo non si tratta più di un luogo solamente commerciale, ma uno spazio che giorno per giorno cerca di custodire la memoria di un passato che a volte si fa fatica a riconoscere, la memoria di un luogo e, in questo caso, di una famiglia davvero speciale.
Nella zona di Anjos a Lisbona, risalendo la rua Triangulo Vermelho ci si imbatte in una galleria d’arte, o per meglio dire, una piattaforma d’arte, che si dedica alla promozione di artisti visuali, ma che, soprattutto, ha per missione quella di essere un luogo di incontro e scambio culturale e artistico, naturalmente.
Ad accoglierci ci sono i due creatori di questo luogo e di questo progetto, nonché anima di questo posto: Vital Lordelo Neto e Julia da Costa.
Appena entrati, l’amore per l’arte é tangibile, non solo per le opere di diversi artisti alle pareti o nei cataloghi, ma soprattutto per l’atmosfera che Vital e Julia hanno saputo creare, trasportando la loro grande passione per l’arte e la loro vita di artisti, in questo progetto, nato concretamente nel 2019: Joia, “orivesaria dos sentimentos” (gioielleria dei sentimenti)
Il nome deriva dal loro primo spazio, nella Baixa di Lisbona, che avevano installato in un’ antica gioielleria e da li l’idea del nome Joia (gioia). Ma come dice il titolo del loro progetto, i gioielli che qui si vendono sono molto speciali: sono le emozioni che l’artista trasmette attraverso le sue opere.
Ma conosciamo più da vicino Vital e Julia.
Vital é brasiliano, di Brasilia. Sarà intorno ai 20 anni, quando si trasferisce per il sud del paese, a Portalegre, luogo di grandi colonizzazioni e molte influenze culturali, che comincia la sua carriera di artista. Inizia anche una formazione in pubblicità e giornalismo, e quando arriva a Lisbona nel 2016 ha già un bagaglio di artista importante. Quando arriva a Lisbona Vital stava lavorando ad un progetto davvero interessante sui sentimenti e sulle emozioni, trasportate attraverso l’arte dell’illustrazione, su delle locandine. Il supporto non é casuale: la volontà di usare un mezzo che viene normalmente esposto per strada sottolinea la sua volontà di comunicare con la gente e portare l’arte alla portata di tutti. E il parlare di emozioni e sentimenti, é perché é sempre più difficile riuscire ad esprimere quello che si prova e ancora meno comunicarlo agli altri. Vital ci dice che la pandemia ha sicuramente reso tutto questo ancora più complicato e che il bisogno di comunicare con gli altri é quanto mai attuale e la strada é sicuramente il palco migliore per lasciare questo messaggio.
Quando Vital arriva a Lisbona aveva già realizzato 18 poster dei 30 che oggi conta il progetto che va avanti da nove anni. E che ha ancora molto da raccontare.
Nel 2019 la sua esperienza di artista e il suo contatto con la città di Lisbona, che Vital definisce un ottimo luogo di incontro e scambio tra culture, lo portano all’idea di creare Joia. Proprio conoscendo le difficoltà di un artista che arriva in un nuovo luogo o che decide di intraprendere il suo percorso artistico, l’idea é quella di creare un ambiente che si distacchi da una galleria d’arte usuale e che vuole essere piuttosto un riferimento concreto sul territorio, in cui esporre, ma anche in cui essere orientati.
Nel 2020 arriva a Joia anche Julia. Francese di Vichy, arriva in Portogallo per imparare la lingua nel 2016. Il suo percorso l’ha portata su due binari paralleli, l’arte e la psicologia, che oggi si fondono nelle sue opere. Julia, arrivata a Lisbona, si dedica a un progetto di disegno, schizzi della città, che tra le pagine di un quaderno prende vita in un’unione di parole e immagini che dà origine a un’opera con cui partecipa all’importante evento artistico “Rendez-vous du carnet de voyage”. Riparteciperà con un’altra opera l’anno seguente dopo un’esperienza a New York.
Ma i suoi studi di psicologia si fanno sentire e Julia comincia a realizzare opere centrate su l’analisi delle emozioni.
Ed é nel 2019 che le strade di Julia e Vital si incrociano. Come artisti prima, come compagni di vita poi.
Il progetto di Joia é cresciuto molto in questi anni: 50 artisti e 8 differenti paesi sono qui rappresentati. Ma la grande innovazione di questo progetto é la sua idea di base che la differenzia da una normale galleria d’arte. Joia é uno spazio per crescere, come lo stesso Vital mi dice.
Quando il progetto é iniziato non c’era l’idea di trasportarlo sul piano virtuale, ma anche a causa della pandemia le cose sono cambiate e, con l’aiuto di Julia, oggi Joia é un luogo fisico, ma anche uno spazio virtuale, oltre a contare anche con un atelier di tatuaggi, un’agenzia di illustrazione e una rivista online, Frestas (fessure) nata proprio durante la pandemia, per far si che da quelle fessure da cui per mesi dovevamo guadare il mondo, oggi possiamo guardare l’arte e le opere degli artisti li rappresentati.
Gli artisti nel progetto di Joia sono tutti artisti locali, di diverse origini ma tutti legati alla città lusitana in cui vivono. Joia si occupa di esporre le loro opere ma soprattutto si occupa di loro: di orientarli, di consigliarli.
Ma il messaggio di Joia é un messaggio che va ancora più al di là. L’arte prima di tutto, come scelta di vita, come messaggio per tutti.
Quello che oggi per Vital e Julia é anche un lavoro, nella realtà finisce per essere una vera e propria missione. La loro priorità é l’arte e vivere d’arte. E chi entra a far parte di questo progetto come artista deve sentire lo stesso. Non c’é spazio per chi vede l’arte solo come un passatempo o come un mezzo per guadagnare. L’arte prima di tutto deve essere al centro della vita di un artista, é l’artista stesso che deve credere che di arte si può vivere e che all’arte bisogna dedicarsi. Solo chi condivide questo pensiero e modo di vivere può apprezzare fino in fondo questo progetto ed entrare a farne parte.
Vital e Julia lo vivono come una vera missione e si dedicano a questo anima e corpo. E non solo alla piattaforma che hanno creato e alla guida degli artisti che ne fanno parte, ma anche alla diffusione dell’arte stessa.
L’idea di creare questo spazio fisico é anche quella di permettere a tutti di usufruire dell’arte che propongono. Chi entra in questo spazio può entrare per comprare come é ovvio, ed é sempre un buon investimento perché come Vital e Julia ci dicono “un’opera d’arte sulle nostre pareti é come una nuova finestra” che ci permette di guardare un mondo diverso. Ma altri entrano anche solo per guardare, e va bene cosi, perché avranno goduto dell’arte comunque anche se per un breve momento.
Diffondere l’arte, raggiungere il maggior numero di persone, perché per Vital e Julia l’arte non é beneficio di pochi, ma un’emozione alla portata di tutti.
Anche la scelta del tipo di arte esposta si sposa con questa ragione: per lungo tempo l’illustrazione era considerata un’arte minore, e questo progetto si impegna a dargli l’importanza che merita. Diversi tipi di arte esposti, diversi tipi di “supporti”: dalle locandine alle cartoline. Perché cosi tutti possono trovare un’opera che corrisponda ai loro gusti e anche alle loro possibilità. Julia e Vital si impegnano perché l’arte non sia considerata un prodotto d’élite, ma perché tutti coloro che lo desiderano possano avere la loro opera d’arte in casa.
Persino la scelta delle cornici partecipa a quest’idea: semplici, quasi essenziali. Perché non é la cornice la parte importante. Come Vital dice “il supporto é semplice, l’arte é nobile”.
Il messaggio che Joia lancia é proprio quello di ridare all’arte la sua giusta importanza e far comprendere anche che l’arte é un lavoro, non é una fantasia o un passatempo. Chi fa dell’arte la sua vita, investe lavoro, emozioni, pensieri, tempo e spesso un’artista non viene considerato alla pari di tanti altri lavori. Tante volte l’artista stesso finisce per non considerarsi alla pari di altre professioni. E Vital e Julia con il loro progetto cercano di fare anche questo: aiutare ad acquisire consapevolezza del proprio lavoro e far si che il mondo capisca quello che c’é dietro un oggetto d’arte.
E Vital e Julia danno estrema importanza anche alla documentazione che c’é dietro, perché un artista sia considerato e riconosciuto.
Un lavoro a tempo pieno che va ben oltre le ore di apertura della galleria/piattaforma d’arte.
Ma Vital e Julia non si dedicano solo a curare il lavoro degli altri, e continuano il loro percorso personale di artisti allo stesso tempo. Vital con un progetto chiamato “Vitalis”, in cui lavora su un cuore creato con vari moduli che possono essere alterati nei colori e nelle posizioni, su cui poi aggiunge dei disegni. I dettagli. Per un lavoro ogni volta nuovo ed originale. Julia, invece, si dedica ad un progetto che vede unite le sue due strade, arte e psicologia, e dopo un primo fumetto dedicato alla dipendenza dell’alcool, oggi mette in risalto la dignità della malattia mentale.
Che dire: non si può non rimanere affascinati da questo luogo, da questo progetto, da Julia e Vital che hanno fatto della loro passione un lavoro e del loro lavoro una missione.
Probabilmente prima che si cominci a dare all’arte e agli artisti la giusta importanza per il loro lavoro dovremmo continuare ad attendere, ma di sicuro Joia é un luogo in cui chi vuole vivere d’arte trova un riferimento, un luogo di crescita, di ispirazione. E per chi d’arte é solo appassionato, raramente troverà un luogo migliore in cui respirare a pieni polmoni il sacro fuoco di questa passione.
Joia, la gioielleria delle emozioni: e le emozioni non mancheranno se accetterete di lasciarvi accompagnare da Julia e Vital in questo turbinio colorato fatto di disegni, colori, parole e molto cuore.
In una società in cui si parla sempre di più di agricoltura organica, di rispetto per il nostro pianeta, di sostenibilità, oggi vogliamo parlarvi di un progetto che ha fatto di queste tematiche una vera e propria missione. Si tratta del progetto di André Maciel.
Originario di Setubal, André mostra da sempre una grande sensibilità verso la natura. Dopo aver studiato “Design do equipamento” (Progettazione di attrezzature) a Setubal, comincia a dedicarsi alla realizzazione di progetti con materiali di recupero.
In questo suo progetto e passione la sua famiglia sarà sempre presente, in particolare suo fratello e il suo migliore amico che lo appoggeranno in questa avventura sin da subito.
Ed é cosi che nel 2013 nasce il suo primo progetto Purisimpl.
André crede fermamente che sia possibile essere auto-sostenibili, creare un piccolo ecosistema e produrre noi stessi il nostro cibo.
Dietro l’idea di questo progetto c’é una storia personale molto forte, il nome stesso la nasconde. Purisimpl: puri da purifição, che non solo significa purificazione, ma che era anche il nome della madre di André scomparsa prematuramente in seguito ad un tumore quando André aveva solo 13 anni. Ricorda che nell’ultimo periodo c’era stato un miglioramento proprio in seguito al fatto che sua madre aveva cominciato a seguire un’alimentazione biologica e salutare. Per André era stato un segnale; comincia a pensare a come questa ed altre malattie siano strettamente legate all’alimentazione.
I prodotti biologici esistono da tempo ma spesso sono troppo cari per la maggior parte della popolazione. E allora l’idea di André é “Perché non fare in modo di produrci da soli i cibi di cui abbiamo bisogno?”
É proprio per seguire questa sua passione che nel 2015 André parte per Coimbra dove studia Agricoltura Biologica e, dopo un periodo di pausa in cui si dedica ad altre cose, riprende il suo progetto.
L’idea di base é quella di riuscire a creare cibo organico per tutti e alla portata di tutti, contando su la partecipazione di ognuno nella produzione dei nostri alimenti, usando l’energia della terra, creando un vero piccolo ecosistema all’interno della città. Quello che si definisce Permacultura.
Oggi si parla tanto di salvare il nostro pianeta, rispettarlo e cercare il modo di prendercene cura. André comincia molto giovane a portare avanti quest’idea, all’inizio anche preso poco sul serio da chi lo riteneva un giovane ragazzino che correva dietro ad un’utopia.
Nonostante oggi questo sia il suo lavoro, per André era ed é una vera missione quella di “educare” le persone ad un tipo di vita e di rapporto con la terra completamente diverso.
André si definisce un attivista in qualche modo, e questo suo progetto é un vero e proprio movimento in cui crede fermamente.
Perché funzioni, perché questo nuovo modo di vivere giunga a più persone possibili, é necessario prima di tutto che ogni cosa sia semplice (da cui la seconda parte del nome Purisimpl) quasi un ritorno alla semplicità iniziale. Dobbiamo tornare a capire le cose semplici, mettere le mani nella terra, tornare a sentire questo legame con la terra stessa.
Tre pilastri quelli su cui si regge questo progetto: Crederci, Agire, Evolvere.
E la vita di André e la crescita del suo progetto si base proprio su questo. Crederci fino in fondo, anche quando nessuno ci credeva, anche quando la sua idea sembrava un’utopia, una vaga illusione; agire mettendo in pratica concretamente quello in cui crede e mostrando agli altri, attraverso il suo esempio concreto, che tutto questo é possibile; Evolvere, continuare a crescere su questo cammino.
La vita di André si incrocia con quella di Lisbona nel 2017 e tre anni dopo, nel 2020, nasce un nuovo progetto, un nuovo seme dalla pianta madre che continua ad essere il Purisimpl.
André si dedica agli orti urbani di Lisbona con l’idea di incentivare e motivare le persone a creare il proprio orto in casa.
Ed é cosi che nasce il progetto Hortas LX. André ha anche creato una pagina Facebook e Instagram con lo scopo di dare alcuni consigli alle persone che cominciano ad avvicinarsi a questa nuova realtà.
Una grande spinta a questo progetto viene data proprio dal periodo di crisi in cui viviamo. Quest’epoca di pandemia ha risvegliato in molte persone la voglia di riprendere in mano il nostro pianeta, di fare qualcosa di concreto, e anche di imparare a produrre da soli quello di cui più si ha bisogno.
Il motto del progetto Hortas LX é “ prendersi cura di ciò che si prenderà cura di noi, che é la nostra alimentazione”.
Ma quello che più colpisce di questo progetto é il fatto che intorno alla creazione dell’orto si crei una vera piccola società, dove non necessariamente tutti devono essere capaci di piantare il proprio orto, perché magari ci sarà chi lo pianterà per lui. Quello che davvero importa é che tutti lavorino insieme per un comune progetto. Un’ idea di aiuto mutuo per dare origine ad una società migliore.
Oggi Hortas LX é un progetto importante, con servizi di consulta, workshop.
Esiste anche una scuola, che si appoggia per la realizzazione delle sue lezioni, nel club sportivo di Campolide, e che é stata creata da Fundoambiente, la “Escola a compostar (scuola di compostaggio) che conta oggi 500 iscrizioni e che propone corsi dal vivo ma anche online.
Sono anche piantati orti all’interno delle aziende e André si occupa proprio della creazione e gestione dei team che si occuperanno di questi spazi. Inizia col piantare l’orto in uno spazio comune dell’azienda e poi, un incontro mensile per approfondire ogni volta un tema diverso e allo stesso tempo aiutare nella gestione dello spazio, che in un ambiente in cui spesso la fredda routine la fa da padrone, diventa una piccola oasi da curare, dove si lavora insieme, dove si collabora alla realizzazione di un progetto comune, Un modo alternativo per creare quel lavoro di gruppo, il team, che nelle aziende é tanto importante.
André ci accoglie nell” Underground Village” dove oggi c’é il suo ufficio, in un ambiente di cooworking. Un luogo, ma anche una sfida: in uno spazio fatto di pietra ed antichi pulman, oggi i container in cui sorgono gli uffici, la sfida é trasformarlo in un ambiente verde, attraverso i suoi orti.
André è anche un coltivatore di Noocity, creatori dei vasi intelligenti che circondano gli autobus dove André ha costruito alcuni giardini dove tutto ciò che viene prodotto viene utilizzato nella cucina del ristorante del village.
E gli orti che vediamo nel village sono davvero straordinari: piante aromatiche, fiori commestibili, verdure e frutta di vari tipi. Un mondo davvero incredibile. E di fronte a due italiani André non resiste e ci prepara il bouquet più profumato che possa esistere: quello di basilico.
Oggi la più grande soddisfazione di André é quella di aver convinto chi lo accusava di essere un sognatore, di aver dimostrato che quello per cui lottava poteva diventare realtà, e che é diventato una realtà concreta. E ancora di più vedere tante di quelle persone oggi interessate in quello che André fa con i suoi progetti.
In fondo questo progetto é l’immagine di André, che ha lavorato dando il suo esempio, mostrando che era possibile fare quello di cui parlava. E oggi c’é un pò di lui in tutti i progetti che ha realizzato.
Esistono orti cittadini a Porto, a Setubal, oltre che a Lisbona. Nuovi orti sono stati piantati nelle scuole, nelle aziende e anche nelle case delle persone.
Ma quello che ad André continua a dare più gioia e soddisfazione é quando si ritrova con le sue piante, con le mani nella terra e a contatto con la natura.
Quello che André cerca di fare attraverso i suoi vari progetti e il suo lavoro é soprattutto passare il messaggio, un messaggio concreto che dice che possiamo davvero occuparci del nostro pianeta e del nostro futuro, ma possiamo farlo concretamente, attraverso un ritorno alla semplicità, alla terra, alle nostre mani nel terreno. Per prenderci davvero cura, come dice André, di quello che si prenderà cura di noi.
A Lisbona, nella piazza che tutti conoscono come Rossio, nel cuore della città, esiste una taverna, che conserva la memoria del tempo che fu, quando questa piazza pullulava di caffè e taverne, luogo di incontro prediletto dei portoghesi.
Si tratta della Tendinha, che dal 1840 continua a rappresentare uno dei punti di riferimento di lisboeti e non, che desiderano fare una pausa e mangiare qualcosa bevendo una birra fredda o un bicchiere di vino.
E quando si dice Tendinha, si dice Alfredo.
La sua immagine e quella della Tendinha sono ormai unite a doppio filo.
Alfredo, alfacinha doc (modo simpatico per dire Lisboeta autentico), lavora in questo posto da più di vent’anni. Ha visto il tempo passare, luoghi e gusti cambiare, tanti clienti, ognuno con la sua storia, ed é presente in questo posto, che conosce come le sue tasche, dal 1998.
Sono sicura che chiunque sia stato a Lisbona, sia passato per la Tendinha almeno una volta. E sicuramente si ricorderà di Alfredo.
Molte ore della sua giornata sono dedicate al lavoro e senza dubbio questo può essere stancante, anche se Alfredo trova sempre il modo di dare spazio ai suoi interessi, come visitare luoghi nuovi, oltre alla fotografia e al ballo, passione scoperta 20 anni fa. Una personalità sicuramente versatile la sua, ed una simpatia che lo rendono un vero punto di riferimento in questo luogo. Alfredo ci racconta che uno scrittore ha citato anche la Tendinha in un suo libro e, ovviamente, non ha dimenticato di parlare anche di lui.
E se si vuole conoscere la storia della Tendinha, non c’é persona più indicata.
Alfredo ci racconta che la Tendinha ha avuto solo tre proprietari nella sua lunga storia: la prima famiglia era di Viseu ed é rimasta proprietaria del posto fino al 1974, tramandando questo luogo di padre in figlio, poi l’ultimo erede, dedicatosi ad altri campi, decise di vendere la taverna. E 12 anni fa l’attuale proprietario l’ha acquistata diventando il terzo proprietario officiale.
Ma la Tendinha, a dispetto degli anni che passano, non é cambiata molto. L’unica grande modifica aveva avuto luogo nel 1974 e poi é rimasta quasi completamente uguale.
Nel suo aspetto originario aveva un piano superiore dove si produceva la ginjinha (tradizionale liquore di visciole) che poi era venduta nel piano inferiore dove esisteva, e ancora esiste, la taverna.
La Tendinha non é mai stata una taverna dove si veniva solo per bere, ma ha sempre venduto anche panini e “salgados” (tradizionali crocchette a base di baccalà o carne o gamberi, ecc).
Quando la Tendinha é stata fondata era il 1840, anche se recentemente un articolo di giornale riporta la sua apertura addirittura al 1818. Lisbona era molto diversa da come appare oggi, le frontiere della città erano poco lontane da Rossio e, dove oggi sorge l’elegante Avenida da Liberdade, erano orti.
La gente non mangiava in casa, tra l’altro in molte case la cucina non c’era neppure visto che il carbone in case di legno sarebbe stato causa immediata di incendio. Per molto tempo il mangiare in taverne o le cosiddette “case da pasto” era abitudine comune e questo spiega anche il basso costo, nelle antiche taverne, ancora oggi. Mangiare fuori non era un lusso, era un’esigenza. E nel passato, ci racconta Alfredo, si veniva anche qui a riscaldare o far cucinare il proprio cibo e in cambio si comprava qui il vino.
Col tempo anche i gusti delle persone sono cambiati e certe “ricette” già non esistono più. Alfredo ci racconta per esempio, che fino a qualche anno fa, si comprava nella Tendinha il panino con crocchetta di baccalà e marmelada (gelatina di mela cotogna), o si univano nello stesso panino prosciutto crudo e crocchette di carne o di baccalà. Oggi l’offerta é più moderna e più adatta al gusto attuale.
Ma il menu non é stato l’unico cambiamento importante della Tendinha. Dieci anni fa, in una taverna gestita da un uomo e frequentata da uomini, é arrivata lei: Margarida.
Ci sembra strano pensare che solo dieci anni fa una donna potesse avere difficoltà ad essere accolta, ma la Tendinha é sempre stata un luogo fuori dal tempo ed era sempre rimasto un luogo molto conservatore, dove clienti fissi venivano a bere qualcosa e, sorseggiando un bicchiere di vino, conversavano con Alfredo, da uomo a uomo.
Quando Margarida ha cominciato a lavorare nella taverna, ci racconta, a volte le dicevano che aspettavano che Alfredo si liberasse per chiedere a lui direttamente.
Margarida ha dovuto far fronte a non poche difficoltà per integrarsi in questo ambiente, ma il carattere non le manca e cosi oggi non c’é Tendinha senza Alfredo, ma neppure senza Margarida.
Ci mette un pò a lasciarsi andare al racconto ma quando lo fa, apre una scatola di ricordi davvero irresistibile. Ed ecco che scopriamo che molti clienti, assistendo ai battibecchi irresistibili tra i due, pensano spesso che siano sposati e Margarida ci confessa, che quando aveva iniziato a lavorare li, per difendersi da corteggiatori non graditi o per affermare la sua presenza nella taverna, lei e Alfredo si fingevano sposati.
Oggi una vecchia coppia lo sembrano davvero: si prendono in giro, si provocano, si punzecchiano a vicenda. E creano cosi facendo un ambiente di lavoro davvero unico, fatto di enorme lavoro, ma anche di tante risate.
Tra gli episodi che ci racconta, ci dice anche che all’inizio della sua presenza li nella taverna, molti clienti, abituati a fare qualche chiacchiera “da bar” e commenti poco adatti alla presenza di una signora, per esempio sull’antico cinematografo di Rossio li al lato, oggi dedicato a peepshows, iniziarono a inventare un codice parlando di aerei e boing per non essere capiti da Margarida, almeno cosi credevano loro. A volte lei andava in cucina per far si che si sentissero più a loro agio.
Ma ci sono anche ricordi poetici, come il signor Cesar che scriveva poesie sui tovaglioli che Margarida conserva ancora in una scatola. Una volta, si era riunito un gruppo di poeti angolani all’interno della taverna e avevano passato la serata senza consumare nulla, ma recitando poesie per ore e ore, e creando un momento che Margarida ricorda come davvero magico.
Ovviamente c’é anche qualcuno che alza il gomito o che arriva li per bere dopo aver visitato un bar di troppo e allora Alfredo ha il suo modo per evitare di servirgli ancora da bere: “Ha la tessera socio? No? E allora non posso servirla”
La Tendinha é un posto unico nel suo genere e tutto fa si che l’antica atmosfera sia conservata: il luogo, il menu, e addirittura i bicchieri che il nuovo proprietario custodisce gelosamente perché fanno parte della storia di questo luogo.
É ovvio che col tempo la clientela della Tendinha é cambiata. Prima entrava un turista alla settimana e adesso sono più turisti che locali. Prima si andava alla Tendinha perché era un punto di riferimento, oggi ci si ferma perché nel cuore di Lisbona é ancora un ristorante economico.
Ma indipendentemente dalla ragione per cui ci si ferma, si resta sicuramente affascinati dal posto e soprattutto dall’atmosfera che si respira.
La Tendinha é un luogo pieno di storia.
Uno dei pochi luoghi che può vantarsi di avere un fado che gli é stato dedicato (Velha Tendinha).
Ed é proprio il verso di questo celebre fado che oggi é in bella mostra sull’ingresso della taverna e sui grembiuli di chi ci lavora: “Velha Taberna nesta Lisboa moderna” (antica taverna in questa Lisbona moderna).
Alfredo e Margarida continuano a rendere questo posto unico, allegro, affrontando il duro lavoro con un sorriso e una battuta, che non può evitare di travolgere anche chi si trova presente.
Ed entrambi amano il contatto con la gente e il fatto che lavorare in questo posto gli permette di entrare in contatto con persone diverse e culture diverse ogni giorno.
Chi passa dalla Tendinha lascia una dedica, un pensiero nel quaderno di Alfredo che ormai di quaderni ne ha più di uno, testimonianza del passaggio di chi, anche se solo per qualche ora, ha fatto parte della storia di questo luogo.
In fondo, dice Margarida, il fascino di questo posto é proprio entrarci da soli ed uscirci conversando con qualcuno, perché come accadeva nelle vecchie taverne di una volta, tra un panino e un bicchiere di vino, ci si ritrova a chiacchierare con perfetti sconosciuti che, alla fine del bicchiere, sconosciuti non lo sono più.
E quando qualcuno prova a interferire con questa tradizione domandando “Tem net?” (Avete internet?), gli viene risposto “Não, hà conversa” (No, abbiamo conversazione).
Perché la Tendinha non é solo una taverna, ma un luogo di incontri, di storie e di molte risate.